Appassionante, catchy, ricco di feels.
Se dovessi trovare tre aggettivi per descrivere “Ready Player One” userei questi tre.
L’ultima pellicola di Steven Spielberg è un omaggio al mondo dei videogiochi e a quello del cinema in grande stile.
Nelle due ore di film Spielberg è riuscito a mescolare sapientemente citazioni e tributi, dai grandi titoli della Blizzard (Overwatch su tutti ma non solo) ai blockbuster quali “Shining”, “Alien”, “Mad Max”, solo per citarne alcuni.
Il ritmo serrato ma piacevole della storia è dettato da una serie di sfide ed eventi, ai quali i 5 protagonisti – gli Altissimi Cinque – sono chiamati a partecipare, e che danno vita ad un effetto “montagne russe” per gli spettatori, che si trovano in una scena sul set di “Shining” e in quella successiva all’interno di un furgone con sopra la faccia demoniaca di Tomb of Horrors, ostica espansione di Dungeons & Dragons.
Spielberg ci catapulta nel 2045: il mondo è sull’orlo del caos e l’unica salvezza è rappresentata da OASIS, un mondo in realtà virtuale creato dall’ eccentrico game designer James Halliday (un plauso alla camera di Halliday bambino, dove troviamo poster di videogiochi e film che suscitano una serie di feels a raffica). Halliday ha nascosto all’interno del mondo virtuale un Easter egg e chi riuscirà a scovarla vincerà l’immensa fortuna del designer, nonché la proprietà esclusiva dei diritti del gioco.
La caccia all’uovo scatta e il primo a distinguersi è Wade Watts – Parzival, un ragazzo che incarna alla perfezione lo stereotipo del nerd (vero e proprio cacciatore di cimeli dei giochi, appassionato di strategia e molto timido con le ragazze). Wade suscita l’invidia e la preoccupazione di Nolan Sorrento, capo della multinazionale IOI, che vuole mettere le mani sull’eredità di Halliday ed è pronto a giocare sporco pur di annullare il primato di Watts.
Ad aiutare Parzival arrivano altri quattro giocatori, fra i quali spicca Art3mis, eroina ferita dalla realtà che gioca per vendicare il padre, morto per i debiti di gioco contratti proprio con l’IOI.
Mentre Wade incarna l’eroe dagli ideali “puri”, nel senso di puramente utopici e legati ad una idealizzazione del mondo e della vita, Samantha – Art3mis è l’eroina che combatte per ideali più “realistici”, terreni, quali la memoria del padre e una vita dignitosa per tutti.
I due mondi si incontrano e porteranno alla formazione di un clan, che riuscirà a superare le sfide del gioco e a trovare l’Easter egg finale, garantendo la salvezza del mondo e la salvaguardia dell’eredità di Halliday.
“Per quanto dolorosa a volte sia, la realtà rimane l’unico posto in cui mangiare un pasto decente. Perché la realtà è reale”, dice Halliday verso la fine del film a Wade. E’ un po’ la lezione che Spielberg ed Ernest Cline, autore del romanzo omonimo del 2010 da cui il film è tratto, cercano di darci: i videogiochi costituiscono un modo per fuggire dalla realtà e ci permettono di vivere esperienze straordinarie ma la vita reale è l’unica che viviamo veramente e dobbiamo ricordarci che ogni cosa ha il suo tempo dedicato ed è importante per il nostro benessere (infatti Wade ed il suo clan stabiliscono dei momenti di pausa dal gioco, da dedicare alle relazioni con partner e amici).
“Ready Player One” permette di evadere ma ci invita anche a riflettere.
Non solo entertainment puro, ma anche valori. Il gioco in sé porta Wade a conoscere quelli che diventeranno il suo clan ed i suoi amici e solo collaborando insieme potranno superare le prove e trovare il tesoro di Halliday.
Concludo con questa domanda per voi lettori, citando nuovamente il film: “Un gioco decide il nostro destino: fin dove siamo disposti ad arrivare per vincere?”.
Nota dell’autore: la citazione forse migliore è quella legata a “Rosebud” (Rosabella), termine che ricorda sia il cheat code in The Sims, che permetteva una volta digitato di avere accesso a 1000 Simoleons nel gioco, sia il capolavoro di Orson Welles “Quarto Potere” (titolo originale “Citizen Kane”, 1941), dove “Rosebud” è l’ultima parola pronunciata dal protagonista Charles Foster Kane.